La strada buia, e andare avanti

Ho perso uno dei miei gatti la settimana scorsa. Quello tutto rosso e selvatico, che avevo salvato, io credevo, dieci anni fa da un cortiletto selvaggio in un vecchio edificio del centro. Per questo mi è così penoso ripensare a uno dei miei fumetti preferiti, “Chatwin” di Tuono Pettinato. L’avevo sfogliato nella libreria della festa di Radio Onda d’Urto qualche anno fa, e ho capito che dovevo comprarlo e possederlo per poterlo rileggere quando ogni volta che mi andava. Adesso mi sarebbe impossibile: mi vien da piangere solo a pensarci, al gatto Chatwin, mi faceva già abbastanza piangere quel finale degli occhi aperti sulla notte, la strada buia, l’incertezza. E adesso l’incertezza è proprio quella che provo io per quel gatto maledetto, che mi ha fatto impazzire per dieci anni con la sua incapacità di adattarsi a qualunque tipo di educazione felina e quello sguardo negli occhi verdi e strani e il suo dono a volte, negli ultimi mesi, di materializzarsi acciambellato contro la mia pancia quando dormivo su un fianco.

“Chatwin” è un libro bellissimo, delicato crudele proprio come Tuono Pettinato. Ci siamo incontrati alla festa di Radio Onda d’Urto poco dopo l’uscita di “Corpicino: è venuto a presentarlo e ricordo che ero molto ansiosa, non sapevo bene come parlare di un libro così fuori da ogni limite, che riusciva a toccare un argomento innominabile come la morte dei bambini e portarlo a casa facendoti sentire spiazzato, insicuro e un po’ vergognoso per Il fatto stesso di appartenere all’umanità.

Per di più l’accordo era che l’avrei ospitato per la notte: la Festa della Radio è una festa di autofinanziamento e siamo sempre super poveri, riusciamo a malapena a coprire le spese di viaggio. Eppure gli autori vengono comunque e noi li facciamo dormire sui divani e i letti degli ospiti dei volontari della libreria, in giro per la città. In questo caso la volontaria ero io che non avevo idea di chi mi sarei trovata di fronte. E’ arrivato questo gigante che parlava poco che aveva due occhi grandi come quelli di Chatwin.

Abbiamo presentato il libro, poi lui ha firmato le copie dei suoi libri e mi ha fatto un disegno bellissimo sul frontespizio di Nevermind. Io mi domandavo come fosse possibile che quei disegnini così carini avessero il potere di essere anche profondi e terribili

Dopo avere bevuto qualcosa con altri amici negli stand della festa siamo andati a casa mia e io da paranoica professionale ho cominciato a domandarmi di cosa avremmo parlato nei momenti imbarazzanti prima di andare a dormire Giusto per non dire ciaobuonanotteeee ho fatto partire della musica dal PC, la prima canzone era di Sufjan Stevens e lui ha detto ah Sufjan Stevens figo e ci siamo messi a parlare di musica e ho scoperto che era un conoscitore potentissimo di musica indie americana! La conversazione è diventata appassionata, ci siamo scambiati nomi di gruppi, abbiamo ascoltato pezzi, insomma avremmo parlato due ore bevendo bicchieri d”acqua nella notte caldissima e profonda finché non è stato tardissimo e a quel punto ci siamo salutati e siamo andati a dormire, ma io l’avevo guardato per un secondo lungo lungo negli occhi che erano grandi quasi infantili e l’avrei abbracciata fortissimo perché quando l’intelligenza si unisce alla dolcezza in quel modo così timido è sempre uno spettacolo un po’ pauroso che mi rende molto felice.

E poi abbiamo dormito, la mattina è ripartito, non ci siamo più rivisti e io ho pensato spesso a lui. Finché poi a un’altra Festa della Radio ho comprato “Chatwin” e a quel punto ho pensato a lui tantissimo perché secondo me in Chatwin c’era Tuono Pettinato all’ennesima potenza e niente, adesso che il mio gatto è scappato e lui non c’è più da tempo sento un nodo alla gola ma non c’è niente da fare se non guardare la strada buia e andare avanti.

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Tutti dentro, tutti fuori (Rorschach, su Quasi, la rivista che non legge nessuno)

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Il gioco di camminare

Pauline, con il nom de plume di Arabella Strange, continua a scrivere su QUASI LA RIVISTA CHE NON LEGGE NESSUNO ma che dovreste leggere perché ogni giorno c’è un pezzo interessantissimo, non solo per gli amanti dei fumetti https://www.obloaps.it/quasi/

Il mio Rorschach di questa settimana è “Il Gioco di camminare”: https://www.obloaps.it/quasi/2021/06/10/il-gioco-di-camminare/

Perché QUASI sempre si può giocare.

(Qui sotto, l’ispiratore: una tavola da Jiro Taniguchi, nel suo meraviglioso “L’uomo che cammina”

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Tanto vale :)

Tanto vale salutare temporaneamente questo blog perché ormai mi trovate con l’alias di ARABELLA URANIA STRANGE, con la rubrica RORSCHACH https://www.obloaps.it/quasi/category/rorschach

Siccome la rivista su cui scrivo è di livello molto, molto alto…. ma nel campo dei fumetti, cosa di cui non so assolutamente nada,, ancora mi domando se mi hanno coinvolto perché gli facevo tenerezza.

In ogni caso ci vediamo, se volete leggere una rivista bellissima, guardate il blog di Quasi, la rivista che non legge nessuno, inventata da Boris Battaglia e Paolo Interdonato. E piena adesso di bella gente. Più tribù, secondo me, che gruppo di redazione.

clic

Pauline Run, baci

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Creatura di fumo e nebbia (25/05/2021)

Su Quasi, la rivista che non legge nessuno, un nuovo Rorschach

Creatura di fumo e tenebra

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Il gatto dentro (Rorschach del 29/01/2021 au Quasi, la rivista che non legge nessuno)

Ecco Arabella Urania Strange su #Quasi la rivista che non legge nessuno. La rubrica è sempre il mio quindicinale Rorschach.
Il Tema di Quasi #28 (sett. 13-19/12/2020) era: “Diventare Disumani”. Abbastanza semplice. Meglio leggerlo qui che ci sono le figure belle!)
: 29/01/2021

RORSCHACH

Il Gatto Dentro

Arabella StrangeComment(0)FacebookTwitterE-mailPiù…1WhatsAppLinkedInTelegram

Io lo sapevo che stavano sottovalutando il gatto, non lo prendevano in considerazione: antropocentrici! Il gatto mentale nella scatola mentale dell’esperimento mentale di Erwin Schrödinger era destinato a mettere subito a disagio l’interlocutore.

«Si possono anche costruire casi del tutto burleschi.», scrive Schrödinger, «Si rinchiuda un gatto in una scatola d’acciaio insieme alla seguente macchina infernale (che occorre proteggere dalla possibilità d’essere afferrata direttamente dal gatto): in un contatore Geiger si trova una minuscola porzione di sostanza radioattiva, così poca che nel corso di un’ora forse uno dei suoi atomi si disintegrerà, ma anche, in modo parimenti probabile, nessuno; se l’evento si verifica il contatore lo segnala e aziona un relais di un martelletto che rompe una fiala con del cianuro. Dopo avere lasciato indisturbato questo intero sistema per un’ora, si direbbe che il gatto è ancora vivo se nel frattempo nessun atomo si fosse disintegrato, mentre la prima disintegrazione atomica lo avrebbe avvelenato. La funzione Ψ dell’intero sistema porta ad affermare che in essa il gatto vivo e il gatto morto non sono degli stati puri, ma miscelati con uguale peso.»

È il 1935 e immagino Erwin Schrödinger, tutto contrariato dall’ipotesi di Copenaghen e dall’entanglement quantistico, che inventa questo esperimento mentale crudele che colpisce sotto la cintura: il gatto turba, altro che «casi burleschi». Per prima cosa vuole infilare un gatto in una scatola, un gatto che puoi immaginarti come vuoi – io grigio tigrato – e che probabilmente nella scatola «infernale» ci entrerebbe da solo: a casa mia se appoggi una scatola un attimo dopo c’è dentro un gatto. Perfino i grandi felini, come i leoni e le tigri, sono stati fotografati mentre si accomodavano dentro scatoloni che ovviamente si sfasciavano, ma l’istinto c’è.
Mi sembra di dover  difendere un gatto tigrato da Erwin Schrödinger – perché non ha immaginato un topo, una cavia? Ammetti che è sospetto! È come Stephen King, che fa sempre morire qualunque animale compaia nei primi capitoli dei suoi libri: se a pagina tre inciampi nel cane di casa, in un coniglio, in un geco, sai già che farà una brutta fine. È una regola che fa eccezione solo per Cujo, che muore alla fine. Dai, Erwin, dovevi proprio pensare a una fiala di cianuro, che fa assassinio o esecuzione capitale o James Bond? E specificare la necessità di «proteggere [il dispositivo] dalla possibilità d’essere afferrata direttamente dal gatto»?

Oggi ho scoperto, curiosando su Wikipedia, che la correlazione quantistica riguarda un sistema «atomo più gatto». Quindi: «Non è […] corretto dire che il gatto è in una sovrapposizione di due stati, perché la sovrapposizione riguarda l’intero sistema»: uno è “atomo non decaduto e gatto vivo”, l’altro “atomo decaduto e gatto morto”». Quindi «l’incertezza sulla sorte del gatto è “classica”: esso è vivo o morto con una probabilità del 50%, senza alcuna interferenza tra i due stati diversi.».
Il gatto c’entra. Lo sapevo. Non è un accessorio.
Il gatto lo sa se è vivo o morto.

Scherzo. Quanta bellezza nella fisica quantistica, soprattutto per una che in scienze andava male a scuola. Leggo tutto quello che trovo, ne capisco un centesimo, ma mi incanto lo stesso. Ah, il collasso delle probabilità, l’incertezza.
Nella vita quotidiana invece l’incertezza mi piace meno.
Per fortuna anche in questo caso compare un gatto, anzi, tre. Che grande consolazione. Ne ho addosso due, pesantemente addormentati, mentre scrivo. Qualunque pensiero sull’incertezza si ammorbidisce quando hai a che fare con esseri che dormono la maggior parte del tempo, si fanno sentire abbastanza educatamente quando hanno fame, e la notte si incastrano nelle nicchie create dal piumino sul tuo corpo rannicchiato, prendendo forme minerali, di grossi sassi pelosi. O di sciarpe, cappelli, stole.

Non ricordo un tempo senza gatti. Ne sono diventata ancora più consapevole durante i lockdown. Giro per casa da sola e parlo con loro, di solito per scusarmi di qualcosa. I croccantini in ritardo. Le ciotole non ben pulite. Per me sono interlocutori: hanno un set di risposte limitato, ma pieno di sfumature. Uno addirittura “parla”, cioè emette dei brevi miagolii interrogativi, a cui io, che ho una coazione a imitare i versi degli animali, rispondo, innescando dialoghi che possono durare anche un minuto. Non so che soddisfazione ne traiamo, esattamente, io e il gatto Saŝa. Immagino: il conforto di essere considerati, forse addirittura amati. Scrive William S. Burroughs, il 9 agosto del 1984: «Il rapporto con i miei gatti mi ha salvato da una letale, dolorosa ignoranza». Trova che i gatti siano «a volte misteriosamente umani». Li definisce «piccoli dèi del focolare, compagni psichici». E io sono completamente d’accordo con lui, in questo libro che si intitola Il gatto in noi (The Cat Inside) e alterna racconti sui suoi gatti a considerazioni come «Credo che nessuno possa scrivere un’autobiografia del tutto sincera. Sono sicuro che nessuno sopporterebbe di leggerla: Il mio passato è stato un lungo fiume malvagio.». C’è una gattità che si accorda molto bene con le persone disturbate. O creative. Sempre Burroughs scrive, parlando del rapporto tra la sua scrittura e i gatti: «Uno psicoanalista direbbe che sto semplicemente proiettando queste fantasie nei miei gatti. Sì, del tutto naturalmente e letteralmente, i gatti, quando investiti dei ruoli appropriati, fanno da schermi sensibili che riflettono atteggiamenti precisi». Burroughs riesce a essere maledetto anche parlando, estesamente, di gattini. Il libro si chiude così: «Noi siamo il gatto che è in noi. Siamo i gatti che non possono camminare da soli, e per noi c’è un posto soltanto.».
Che non possono camminare da soli.
Che si parli di particelle subatomiche o gatti domestici, si parla sempre di relazioni.

Scrive Carlo Rovelli ne L’ordine del tempo che «le cose non “sono”, accadono».
Il mondo è un insieme di eventi, di processi.

«La differenza tra cose e eventi è che le cose permangono nel tempo. […] Un prototipo di una “cosa” è un sasso. Possiamo chiederci dove sarà domani. Mentre un bacio è un “evento”. Non ha senso chiedersi dove sia andato il bacio domani. Il mondo è fatto di reti di baci, non di sassi».

Che il mondo sia fatto di reti l’ho imparato dal buddismo, la rete di Indra ha un gioiello appeso a ogni nodo, e ogni gioiello riflette lo splendore di tutti gli altri. Posso immaginare il mondo come una rete di baci, e sguardi, schiaffi, carezze. Che poi dire “rete” , o “eventi”, è descrivere gli ingredienti delle storie.

Parte della mia passione per i gatti nasce da un libro che avevo da piccola, un’edizione in formato grande, con la copertina rilegata, della traduzione italiana di Felix the cat, diventato Felix Mio Mao. «Il vero gatto è quello del 1923, quello nero, magretto, bizzarro», scrive Oreste Del Buono nell’introduzione. Quello di Otto Messmer e Pat Sullivan. E per me, grasso o magro, ogni gatto è così, «in confidenza addirittura eccessiva con ogni particolare del disegno in cui si trova a vivere. Capace di prelevare dal cielo una falce di luna per offrire una tranquillante culla a un neonato in lacrime, capace di rubare la melodia di un pifferaio per rianimare le gomme sgonfie della sua bicicletta, , capace di sfruttare il perentorio punto esclamativo del suo fumetto per farsi un remo…». Ho letto quella raccolta di storie decine di volte. È per questo che ho un debole per i gatti bianchi e neri.

Provo gratitudine per l’amore che tutti i gatti mi hanno consentito di dare loro, perché l’amore è il motore più potente della mia immaginazione. L’amore in generale, anche in forma di curiosità e meraviglia per il mondo. Come quella sventurata Krazy Kat di George Herriman, che si strugge per un amore che si nutre solo di se stesso, e mi spezza il cuore, ma la rende una sorgente inesauribile di storie perché la speranza è, a sua volta, una forma di storia. Krazy Kat pensa che Ignatz prima o poi la amerà. E quando arriva il mattone io vorrei massacrare quel ratto. Ma nella striscia successiva Krazy Kat è ancora innamorata cieca, e come si fa a non volerle bene?

L’amore è assurdo, poco descrivibile perché è descritto di continuo con miliardi di immagini e parole in tutte le lingue, ribalta realtà e certezze. Assomiglia, a volte, alla scatola di Schrödinger, col gatto dentro. Amare sembra facile. Aprire le scatole no: gatti morti, pensieri fastidiosi, ricordi accantonati. Relazioni che non si sa se siano vive o morte. Che vanno avanti, tranquillamente, per anni, vive e morte.
A volte penso: non voglio amare più nessuno. Poi prendo tra le mani il crapino di seta di Saŝa, affondo il naso in quella peluria sottile, gli do un bacio e annuso il suo odore di gattino.

Ho una certa riluttanza ad aprire le scatole. Approfitto del fatto che per l’inconscio qualunque gatto può essere vivo e morto allo stesso tempo, qualunque cosa può essere giusta e sbagliata, desiderabile e spaventosa, amata e odiata. Poi, se davvero vuoi sapere, fai collassare le probabilità e per la tua mente razionale una cosa diventa in un modo o in un altro. Ci dimentichiamo che il mondo non è fatto di cose, ma di eventi. E nelle profondità d’inchiostro dell’inconscio resta la sovrapposizione di stati, e quell’oscurità, che amo e temo e mi fa restare incantata a leggere di particelle che si comportano secondo leggi incomprensibili ai miei sensi e alla mia logica quotidiana. Ed è meraviglioso, perché vuol dire che il mondo davvero non è così compatto e impenetrabile come ho creduto per anni. È la stessa oscurità che mi fa sentire felice, profondamente felice e grata, di non essere sola con le mie scatole infernali. Di poter dividere la casa con questi folletti, i miei gatti, i miei piccoli specchi, i miei compagni.

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Vorrei essere un divano (Rorschach del 12/02/2021 su Quasi, la rivista che non legge nessuno)

Qui per intero:

RORSCHACH

Vorrei Essere Un Divano

In quante tavole di Claire Bretécher compaiono sofà, canapè, insomma divani, e letti, e poi poltrone, sempre enormi, accoglienti. A volte questi morbidi arredi nascondono persino il volto di chi parla. Agrippine è spesso sdraiata sul letto a pancia in giù: quante ore ho passato a leggere in quella posizione. Ma tra tutta la mobilia, sfogliando I frustrati, non ho potuto non rilevare la massiccia presenza di divani. I personaggi, ma soprattutto le personagge, ci si accasciano, sembrano essere a un passo dallo sprofondarci dentro. Il divano acquista una forma femminile, e le donne una forma di divano. Io amo i divani,  Vorrei fare un’ode al divano.

Cominciando con un ricordo felice, il divano primigenio identificativo stampato sulle toppe che mia madre cucì col filo rosso alla bavaglia, alla busta della bavaglia e alla mia copertina di plaid rosso scozzese che usavamo per il riposino alla scuola materna Agazzi. Che presagio. Il divano è uno dei luoghi in cui ho passato più tempo nella mia vita. Adesso sono passata al livello successivo, l’ho sostituito con il letto per proteggere il divano, che mi serve per avere interazioni con altre persone in una stanza protetta dal disordine caotico che riempie casa mia: è terribile da rivelare ma mi piace stare sdraiata a letto con tre cuscini dietro la schiena a mangiucchiare patatine, cioccolato e altre cose buone che fanno briciole: la stanza del divano, quella dove faccio salotto e ricevo gli ospiti deve essere protetta da tutto questo. È una stanza microscopica, il divano è durissimo, è di Ikea, ma non dovendomici sdraiare ça plane pour moi, a me va benissimo. In quella stanza si svolgono solo rituali sociali. Non c’è posto per vasetti vuoti di budino, bicchieri abbandonati di acqua e menta.
A volte anche la mia camera viene invasa, il mio letto diventa un superdivano: quando siamo in momenti di imprevista intimità e confessione le mie amiche preferiscono stare sedute ai piedi del letto mentre io sto a gambe incrociate ad ascoltarle appoggiata ai cuscini. È una prerogativa di pochissime, carissime amiche. È questo che mi consente di restare lì, svaccata, ad ascoltare partecipe, un po’ come un vecchio inglese che dà udienza, come Sir Magnus dei Mennyms di Sylvia Waugh. A volte penso di avere meno ossa del normale. Mi accascio proprio come nei Frustrati.
Se potessi tutta casa mia sarebbe un infinito divano su cui muoversi gattonando, con botole dissimulate dall’imbottitura da sollevare per estrarne gli oggetti della vita. Potrei sdraiarmi ovunque.

Particolare amore provo per il divano dopo aver finito di lavorare a qualcosa di tedioso o tragico, come quando tornavo a casa dall’ufficio stranieri del comune e volevo spararmi per la povertà, la mancanza di risorse, le storie tragiche: era una gioia impagabile abbandonarsi al suo abbraccio che sembrava dirmi, con una voce di cuscini: «Stai tranquilla, è tutto finito. Sei sulla mia isola.»

Una volta i letti avevano cortine di raso e velluto, mi domando perché non immaginare un divano isolato da cortine morbide e variopinte. Non tanto per consumare un frettoloso e magari segreto rapporto sessuale, no, per creare una bolla.
Il divano bolla può essere comodamente realizzato se si possiede un letto a castello, incastrando il lato di un lenzuolo sotto il materasso del letto sopra: il letto sotto diventa subito una tenda da campeggio, una casina, un’astronave, un posto sicuro e invisibile. Mi piace essere invisibile.
Il divano, che non è letto, può comunque invitare al sonno, ma se costruisci il tuo castello con le lenzuola non lo fai per dormire lo fai per giocare, per leggere: cose da svegli.
Una parola sul triclinio: mi piace stare sdraiata, ma credo che fosse scomodissimo perché è una specie di letto che non ce l’ha fatta. Mangiare in quella posizione appoggiati al gomito doveva essere sfiancante. Anche perché non potevi dire «Scusate mi appoggio all’altro gomito» e trovarti girato verso il muro, con la spalla ai commensali. Magari l’Imperatore se la prendeva.
La chaise longue invece ha un suo perché, non solo in termini di stile ed eleganza ma anche perché è una specie di piccolo divano di salvataggio, una scialuppa per una persona sola.

Persino nel porno le storie lesbiche cominciano spessissimo su un divano, perché il divano evoca coccole e subito un’atmosfera di dolcezza si diffonde, anche se poi potrebbero seguire scene di cunnilingus di 50 minuti. E il sesso vero? Chi non ha fatto sesso su un divano, che poi la gente ci si siede sopra e tu arrossisci dentro, magari fai anche un microscopico sospiro?
Il divano è bello da soli ed è bello in compagnia: questa è anche un’ode ai tavolini da tè, quelli bassi in cui vai sempre a sbattere con le tibie. Quella sensazione meravigliosa di chinarsi insieme a un’amica per prendere la tazza di tè, o sollevare la teiera se la tazza è vuota: trovo immensamente poetico quel movimento che assomiglia a un inchino giapponese e fa convergere le spalle, le teste delle persone che stanno chiacchierando.
È una specie di balletto cerimoniale che avviene per caso, in modo totalmente istintivo.
Certo si può spiegare: faccio io – no lascia che faccio io – ma in realtà è una specie di abbraccio simbolico che deriva dal verbale che circonda il gesto, le parole dette e quelle che si diranno. Si possono capire molte cose sul rapporto tra due persone che bevono il tè insieme su un divano, davanti a un piccolo tavolino. Il tavolino basso contribuisce a creare una sensazione di casa di bambole che rende ancora più intimo il colloquio.
Io parlo molto, in generale, anche nei bar parlo molto, ma non credo di aver mai parlato così tanto come sui divani. A volte anche da sola, proprio come le donne meravigliose di Claire Bretécher, disegnate con quelle linee morbide, spietate, realistiche in modo consolante. Faccio riflessioni come se fossi anch’io in una striscia, senza quarta parete, immaginando un interlocutore intelligente che capisce il mio sconforto, il mio divertimento o la mia sorpresa Queste sono le tre situazioni in cui parlo da sola.
No, ce n’è una quarta, quando perdo qualcosa – e mi capita ottanta volte al giorno – formulo sempre ad alta voce la domanda «Ma dove ho messo il telefono, dove ho messo quel libro enorme, dove ho messo il maglione che avevo in mano trenta secondi fa?». Questa quarta situazione si verifica anche mentre sto in piedi, ma spesso formulo queste domande seduta sul divano, abbandonata e sconfitta, e l’interlocutore che mi farebbe comodo sarebbe uno che mi rispondesse «L’hai lasciato in cucina.»

Non solo nel porno il divano è un preludio fatto mobile, sappiamo tutti che enorme differenza c’è, simbolicamente, tra il sedersi sulla poltrona di fronte oppure sul divano, vicino all’altra persona.
Non c’è niente da fare, il corpo si abbandona, si è più indifesi, più aperti e trovarsi seduti sul divano vicino a qualcuno che non ci piace è una tortura fisica e psicologica. Ci si sposta impercettibilmente, o ci si alza per prendere qualcosa. È imbarazzante.

Sui divani ho letto tantissimo, rigorosamente con le gambe distese e la testa appoggiata al bracciolo, ho preso il tè con le mie amiche, ho spettegolato, ho rivelato la mia infelicità, la mia frustrazione e i miei dubbi: è facile, essere sprofondata contro uno schienale accogliente, con un cuscino morbido sotto il sedere mi dà un’intensa situazione di sicurezza. Odio i divani in pelle, mi sembra sempre di essere nello studio di un notaio, mentre  adoro i divani di velluto o di qualunque tessuto morbido e provo molta tenerezza per i divani coperti da un largo telo etnico, di solito coperto di peli di cane o di gatto, ultimo, estremo tentativo di mantenere il divano sottostante in condizioni accettabili.

Mi ha sempre fatto molto ridere la canzone Ça Plane pour moi di Plastic Bertrand quando canta:

 «”You are the king of the divan!” / Qu’elle me dit en passant / (hou-hou-oou-oou!) / I am the king of the divan / I am the King of the divan.».
Il pezzo è un pastiche di espressioni gergali, ma in quel punto dice esattamente che «“Sei il re del divano”, è quello che mi ha detto lei tra l’altro, (hou-hou-oou-oou!) / Sono il re del divano.» Io sono The Queen of The Divan.

C’è un’espressione che mi piace molto in inglese: couch potato, patata da divano. Sembra suggerire, però, che sul divano si stia come un tubero inerte e passivo. Invece nelle 333 pagine di Tutti frustrati compaiono centinaia di divani e poltrone giganti, ma i fumetti sono pieni di riflessioni, discussioni, progetti, filosofia, cinismo, desideri. E infatti sul divano si riflette, si chiacchiera, si guardano le serie TV, si sogna a occhi aperti. E quando ci si fa sesso, a volte è un codice per dire: non sono pronta, non sono pronto per un letto. È più impegnativo, anche se più comodo.

Perché, rispetto al divano, il letto è qualcosa di più oscuro, misterioso, profondo. È il posto del sonno, dei sogni, del rigirarsi senza riuscire a far tacere i pensieri nella testa. Il letto è un simbolo potentissimo , è la cosa che Odisseo va a controllare tornato a Itaca, credo dopo aver sterminato i pretendenti della moglie: c’è ancora il nostro letto, quello che ho intagliato in un albero? Il letto è oggetto intimo e misterioso, accoglie la nostra incoscienza, e non è un caso se nel primo Nighmare il tipo viene risucchiato da un frullatore che si apre proprio nel mezzo del suo letto: secondo me sul divano non avrebbe mai potuto aprirsi un frullatore, perché il divano è amichevole di natura e protettivo.

Forse è per quello che al solo dire la parola divano provo un fremito lungo la spina dorsale, un richiamo potente come quello di Cthulhu a stendermi e a prendermi del tempo per me, per guardare una serie, per guardare il soffitto, per pronunciare ad alta voce parole che altrimenti andrebbero perse giù per lo scarico del cervello, per coccolare i gatti. E per dormire, ma dormire il sonno del divano, che è speciale, ignora i rumori circostanti e un sonno spesso è preceduto da un momento ipnagogico in cui tra il sonno e la veglia si vedono cose. È diverso perché lo sai che sei sul divano e per quanto lungo o profondo il tuo non sarà il sonno della notte, ma solo un piccolo pezzo di tempo diurno rubato.

So che molti si addormentano sul divano guardando la televisione: è un’esperienza che non ho mai avuto. Ma è il potere del divano. Poi ci sono quelli che sul divano ci dormono tutta la notte, e vorrei fare loro una carezza, che siano ospiti a casa di qualcuno, che siano insonni crollati davanti a una replica di Friends, che siano fuoriusciti dalla camera matrimoniale: non è un letto, d’accordo, ma è un oggetto che, anche se inanimato, non può non trasmettere una sensazione di abbraccio accogliente, che non ti giudica ma ti protegge, ospitale, quasi si scusa se non può essere più ampio. Se sei triste puoi girarti verso lo schienale ed elencare i tuoi errori.

Le figure di Claire camminano, si siedono a tavolini, ma dopo tre pagine al massimo li troverai accasciati, chi per terra, chi su una poltrona, chi su un divano. È uno dei motivi per cui li amo: si arrendono alla loro natura fragile, sfiancata dai problemi politici o di cellulite, o dalla scoperta che i francesi fanno meno l’amore perché portano i pantaloni troppo stretti. Sono morbidi come i cuscini che li sostengono, alla distanza minima consentita dal pavimento. I loro corpi imperfetti, un po’ sfatti, ricordano vecchi cuscini molto amati e molto usati.

Io, se fossi un divano, sarei di velluto azzurro carta da zucchero, avrei come compagnia un tavolino basso e pericolosissimo, e avrei risolto ogni problema, almeno fino a che non mi sostituissero con un divano nuovo e più bello. Non potrei parlare e ascolterei parlare la gente seduta. Sarebbe una specie di vacanza.

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Sentieri selvaggi (Rorschach del 25/02/2021 su Quasi, la rivista che non legge nessuno)

Qui per esteso:

RORSCHACH

Sentieri Selvaggi

Robert Frost, in The Road Not Taken, scrive:

«Two roads diverged in a yellow wood,
And sorry I could not travel both
[…]
And both that morning equally lay
In leaves no step had trodden black.»

Due sentieri si dividevano in un bosco giallo? È questo il problema, signor Frost? Magari fossero due, io vedo centomila sentieri dividersi. La mia mente prisma vede diramarsi un’infinità di cammini da ciascuno di quelli possibili, frattali come i cristalli di neve quando si formano.
Per me che ho la testa piena di fiocchi di neve le scelte non sono mai facili. Le odio.
D’altra parte non puoi camminare su tutti i sentieri, il tessuto dello spazio-tempo è così sottile ed elastico che, come ha raccontato bene James Ward Byrkit nel suo film intricato e bello  Coherence del 2013, troppi sentieri che si incrociano ti portano inevitabilmente a sbattere contro te stesso, e magari a cercare di ammazzare quell’altra versione di te colpendola col coperchio in ceramica dello sciacquone. Anche al di fuori dei viaggi nel tempo , la metafora regge.
I bivi sono maledetti, per me. Altro che gli incroci. Lì puoi seppellire qualcosa, aspettare un demone, esprimere un desiderio suggellare con un bacio sulla bocca il patto demoniaco: Supernatural, la serie tv, ha stabilito il canone. Ai crocicchi si arriva già decisi. Ai bivi, invece, non è sempre facile decidere, a volte resti incastrato a pensare per moltissimo tempo. Paradossalmente invece quando i sentieri si interrompono oh, be’, non è scelta, è destino.

Non voglio dirlo con leggerezza, ma l’inevitabile è un momento in cui vedi, chiaramente, l’impalcatura della realtà: in particolare quando il sentiero è interrotto brutalmente dalla morte. Non so parlare per chi muore, non so se c’è un sentiero, o se a quel punto il concetto di sentiero abbia senso. Posso però parlare di noi vivi, che abbiamo camminato insieme a lui, o a lei, fino a poco prima, e ci vediamo di colpo davanti il ponte crollato, la frana che estingue la strada.
E possiamo solo strillare la nostra frustrazione, immobili in una inquadratura che, con una carrellata all’indietro, faccia vedere bene come siamo piccole, piccoli, in confronto a quell’immenso paesaggio mutato. Quell’amicizia, quell’amore, sono giunti a uno stop, e non c’è furia o ribellione che tenga.

Ma non ribellarsi per qualcuno risulta difficile, e cerca un sentiero invisibile che si diparta dalla frana o dall’erba incolta. Sir Arthur Conan Doyle, il medico scrittore che pure aveva immaginato Sherlock Holmes, uno che i sentieri, le tracce, sapeva seguirli in modo impeccabile dentro la sua testa, è stato un accanito sostenitore dello Spiritismo. Si era unito alla Società Britannica per la Ricerca Psichica, formatasi a Cambridge per indagare su spiriti, fantasmi e altri fenomeni paranormali, comprese le fate. Lo Spiritismo in quel periodo era diffusissimo, nelle case si facevano le sedute spiritiche con grande frequenza,  disinvoltura ed entusiasmo. Aveva trovato una base nel movimento spiritualista di metà 1800, sorto per opporsi al materialismo, ed era diventato un fenomeno di massa, con milioni di seguaci in molti Paesi del mondo. Doyle ha scritto libri sull’argomento, ha tenuto appassionate conferenze in Europa, Australia, Stati Uniti, Sudafrica. Ha voluto crederci. Lo rispetto molto per questa campagna appassionata e vagamente straniante, a considerarla oggi. È una presa di posizione forte e commovente: non c’era verso che i sentieri potessero interrompersi per lui. Doveva esserci un oltre, con cui comunicare, così che nessuno se ne sarebbe andato per sempre.

Anche io ho pianto e graffiato i muri dalla rabbia, ma Così è la vita, direbbe Kurt Vonnegut, o lo farebbe dire ai tralfamadoriani. Anche mentre ero spazzata dalla furia e dal dolore lo sapevo: bye, questo sentiero continuerà, ma solo solo dentro di me, in un monologo-dialogo che, comunque, mi darà conforto.

Dopo quelli interrotti dal Tristo Mietitore ci sono i sentieri interrotti dalla guerra, dalle pestilenze, da altre catastrofi. Li lascio stare, non so che dire, salvo citare Etty Hillesum che ha scritto: «Mi sembra una curiosa sopravvalutazione di se stessi, quella di ritenersi troppo preziosi per condividere con gli altri un “destino di massa”».  Ci sono troppe cose da dire sui sentieri interrotti dalla barbarie o dai meteoriti, chiedete ai dinosauri, potevano evolversi e dominare la terra, magari con una massiccia vittoria degli erbivori, e invece è toccato ai mammiferi.

Perciò parlerò dei miei sentierini personali, sono più a mio agio. Delle cose che ti domandi se continuare  o interrompere. E che cosa comporterà la tua scelta. Robert Frost sceglie un sentiero, ma poi intitolerà la poesia, che ogni singolo bambino americano imparerà a scuola, La strada che non ho preso. Al bivio scegli, e anche se la strada che ignori continua a snodarsi per conto suo, dentro di te l’hai interrotta. Ognuno di questi sentieri, essenzialmente, è dentro di noi, noi stupidi, esitanti, arroganti, dubbiosi, sventati, distratti. È già molto che non ci perdiamo di continuo. O succede già?

Per esempio: sono stufa di andare dallo psicanalista, ma devo continuare ad andare dallo psicanalista? Il nostro lavoro insieme è finito, o se smettessi, sull’onda di questo disagio, interromperei qualcosa che sta modificandosi, ordinandosi, trasmutandosi? Sono mesi che sento questa cosa nelle gambe, la voglia di scappare. Non solo dal percorso analitico, da quasi tutto.

In questi ultimi mesi, ogni volta che vado allo studio del Dottor B e aspetto l’ascensore – più per pensare che altro, perché a volte, in ritardo, sono volata al secondo piano su quegli strani gradini in sottile pietra nera che amplificano i passi: TUM TUM TUM – sono invasa da una sensazione di scollamento tipo Sliding Doors, una me entra nell’ascensore, che sembra uscito da un film di Dario Argento, e un’altra me dice «fanculo e torna fuori, all’aperto, a rivedere stelle invisibili perché c’è troppo inquinamento», e quella me, mica lo so dove andrebbe a finire. Per ora me la tengo incollata, cucita come l’ombra di Peter Pan, e la porto con me al secondo piano, a sedersi su quella poltrona, a guardare il mio terapeuta che si staglia contro il muro bianco come l’ultima madonna a cui rivolgere una preghiera.

Non capisco, detto semplicemente, se sono ancora su un sentiero. E parlo di un vero sentiero, di quelli con l’erba alta ai lati, e fauna selvatica che lo attraversa.  A volte mi sembra di camminare accanto al terapeuta, a volte di seguirlo e parlargli da dietro, a volte è chiaro che mi lancio tra i cespugli, cappuccetto rosso demente, e lui, compìto e padrone della situazione, attende sul sentiero che io, dopo un po’, tra il docile e il ribello, torni. E il dialogo riprenda.

Sono anni che vado in quell’edificio. Era sede dello studio del mio precedente psicanalista, il Dottor S, da cui dopo anni di maggiore equilibrio non posso tornare perché nel frattempo è diventato un mio amico, ci scambiamo consigli sui libri di fantascienza e le serie tv. A lui piacciono le serie in cui si menano. Possibilmente tramite arti marziali. Dice che dopo aver ascoltato per tutto il giorno lo scoperchiarsi dell’animo umano la sera ha solo voglia di calci volanti e katana. Lo psicanalista da cui vado adesso, il Dottor B, suo allievo, è molto diverso, parla pochissimo, a voce bassa, e ultimamente gli ho detto «La prego, parli, dica cose!» Siamo in un momento delicatissimo, in cui sto scoprendo che la mia rabbia non ammazza nessuno, e non devo per forza riempire tutto lo spazio. Ma la spinta alla fuga è animalesca. Come so che accade quando si arriva a qualcosa di sotterrato con cura. Io, che nella vita reale mi aprirei la strada nella foresta col machete, son lì a piagnucolare che forse il sentiero non porta da nessuno parte, torniamo indietro, è sera, pioverà. È disagio e terrore. In realtà io lo vedo quel sentiero: non si interrompe, non si estingue, prosegue. Sfocia da qualche parte, non come un estuario, piuttosto come un delta, verso una specie di mare immane. Che non raggiungerò mai, ma annuso, sale nell’aria, da lontanissimo.

Ma l’edificio! A pianoterra c’è una portineria fantasma. È nell’angolo più buio, quello dell’ascensore, un angolo scuro che farebbe felice Brian de Palma. La portineria è una vetrata da cui si intravedono un bancone abbandonato, alcuni cavi disconnessi, e la cornetta di un vecchio apparecchio con cui, immagino, i condomini comunicavano con la portineria. Tutto è coperto di polvere che ingrigisce i colori della formica anni Sessanta. Mentre vedo scorrere i numeri sulla placca dell’ascensore che si illumina, quarto piano, terzo, secondo, primo, terra, sbircio a destra, oltre quel vetro. Immagino portinai fantasmi, anzi, è la portineria stessa a essere fantasma, come le case intelligenti di There will come soft rains, Verranno le dolci piogge di Ray Bradbury, che continuano a funzionare per anni aspettando gli abitanti scomparsi. Guardo il mio riflesso pallido nel vetro, in tutti questi anni mi sono affezionata alla portineria fantasma, è stata testimone, nel mio riflesso, dei fantasmi di amori infelici, fottuti trigger delle mie crisi, che si trasformano sempre, inesorabilmente, in una voragine personale che nulla aveva più a che vedere con A, B o C che mi avevano lasciato, o non mi volevano. Questi amanti crudeli scomparivano come mosche nella melassa scura della mia tenebra personale. E così dovevo cominciare un altro percorso, avventurarmi  esitante e disperata su un nuovo sentiero, insieme a un terapeuta. Quella portineria col suo specchio spettrale era diventata una specie di anticamera, per me, un rituale. Chiamare l’ascensore, voltarmi e specchiarmi, trasparente, sul vetro color ombra. La settimana scorsa la portineria è sparita! È rimasto il vetro, pulito. La stanzetta è stata svuotata e imbiancata. Io mi sono sentita smarrita.

Camminare dentro di sé è più selvaggio e pericoloso che camminare sul sentiero distrutto, ingombro di tronchi caduti, mangiato da piccole frane, che facciamo da anni per cercare di arrivare a certe cascate. Non ci siamo mai riusciti. È diventata una battuta: le cascate del Maniva. Un meme. Ci abbiamo provato in due, in quattro, ci hanno provato altri amici, nessuno di noi è riuscito a capire dove realmente il sentiero portasse. Era un sentiero che a tratti diventava invisibile: radure, impianti sciistici, piccole praterie, torrenti.. Il sentiero c’è, lo giurano tutte le informazioni che abbiamo trovato in rete. Se si interrompe, riemerge più avanti, ma in qualche modo a noi sfugge, e le cascate le abbiamo sempre viste lontanissime, da prospettive improbabili e ogni volta diverse.
Ecco, camminare dentro di sé è molto, molto più difficile. I progressi sono ingannevoli. A volte è totalmente buio, e vai, affidandoti a una guida e sperando che sappia quello che fa, oppure procedendo come nei sogni, in una realtà che si crea a mano a mano che la percorri.

Invidio il bivio di Robert Frost. Può permettersi di aver un rimpianto, non centomila. Nella mia testa i pensieri si snodano come sentieri, tutti interrotti, perché come si fa a non saltare freneticamente da uno all’altro? Si può, ci sono delle pillole che funzionano abbastanza bene. Che mi consentono a volte di seguire un pensiero fino alla fine, quando appassisce e ne fa sbocciare un altro. E, se sono temporaneamente libera dal caos, mi fermo, guardo dove metto i piedi, e vado avanti.

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Rosaporno (Rorschach del 04/03/2021 su Quasi, la rivista che non legge nessuno)

Per esteso, qui:

Rosaporno

Il vero porno delle donne è il romanzo rosa. L’equivalente di quello che la pornografia significa per i maschi, e in modo sotterraneo ne plasma psiche e fantasie. Scrivo Rosa perché è quello che troverete sulla fascetta incollata sul dorso del libro, sopra l’etichetta del call number, nelle biblioteche: è un genere specifico a cui viene riservata, di solito, una scaffalatura bella grande, sconfitta per dimensioni solo da quella immensa dei Gialli.
Credo che porno e rosa siano due campi semantici apparentemente quasi opposti che in realtà condividono molti aspetti, e un diagramma di Venn rivelerebbe una sovrapposizione notevole di temi, bisogni e meccanismi.
La considerazione di partenza è che entrambe le forme narrative mi suscitano noia e disagio, la sensazione di vedere le rotelline del meccanismo che girano, che è la morte dell’interesse.

Non ho una posizione ideologica né sul porno (anche se i libri di Jenna Jameson, ex pornostar, sono decisamente inquietanti) né sulla narrativa Rosa: sono forme espressive che rispetto, anche se in entrambe vedo una forma di controllo sociale di radice patriarcale. Lei che non desidera altro che il lingam gigantesco e meraviglioso, o lei che aspetta il riscatto da un amore invincibile, che possibilmente comprenda un elevamento sociale, poco hanno a che fare con la liberazione della donna. Ma ad affascinarmi sono gli elementi così simili di forme di racconto che sembrano stare agli estremi opposti dell’asse.

Il primo elemento comune, clamoroso, è la rappresentazione stilizzata e grottesca della realtà, e il messaggio indirizzato al subconscio che sia invece tutto vero e possibile, la fantasia perfetta possa realizzarsi. Nel suo un romanzo del 1978, La vita interioreAlberto Moravia scrive un paragrafo che riassumo a memoria, e chiedo scusa perché la mia memoria è un giardino selvatico, in cui tutto si attorciglia, ma il senso dell’episodio raccontato mi si è stampato per bene nel cervello: la protagonista, molto giovane, Desideria, si offre sessualmente a un uomo, ma lo fa per motivi di dissenso generale per l’ipocrisia della vita, ed essendo Moravia posso dire et cetera. Desideria vede negli occhi del maschio che ha davanti, e la guarda incredulo, nuda, goffamente tentatrice, la felicità che proverebbero i fanatici degli UFO se gliene passasse uno sopra la testa. Allora è tutto vero! La Troia eterna esiste! Quella che è lì per desiderarti, soddisfarti, farti godere in quanto esisti, non occorre nessuna seduzione!
Invece non esiste. Desideria si sta servendo di lui. E i vari “Damon”, “Ryan”, “Gericho” che trascinano le protagonista dei Rosa nel tumulto degli ostacoli verso il lieto fine non esistono nemmeno loro.

I nomi li ho presi da un romanzo divertentissimo e intelligente, Romanzo rosa di Stefania Bertola, che con l’escamotage di raccontare un workshop sulla scrittura dei Romanzi Melody (pseudobiblia con un nome che ne ricorda un altro, e quell’altro sarebbe se non ci fossero ragioni legali a sconsigliarlo) descrive con ironia e minuzia di dettagli la costruzione, a tavolino, di un romanzo  Rosa. «Nomi: non ricorrete, se possibile, a nomi classici, normali o comunque esistenti. Le protagoniste dei Melody devono avere nomi unici, che facciano sognare, addirittura nomi che nessuno ha mai portato nella banale vita quotidiana. Ottimi sono i nomi di fenomeni atmosferici, nomi di luoghi geografici o semplicemente parole che non sono nomi, o insiemi di sillabe che non sono parole.» I nomi di pornoattori e pornoattrici non fanno eccezione. Aidra, Amarna, Dahlia, Ria, Dillion, Proxy, Aahy, Aletta… sto scrollando una pagina chiamata “150 best pornstars”, e resto decisamente impressionata dalla sfida implicita tra Dava Foxx e Diamond Foxxx. Scegliersi un nome da pornostar sembra richiedere uno sforzo di fantasia analogo a quello degli aspiranti scrittori del Workshop Melody. E lo scopo è identico: creare una realtà separata, segreta, parallela, dove questi nomi sono plausibili, e la fantasia è reale.

Il sesso che ho fatto nella mia vita non ha assolutamente niente a che vedere con le sequenze estenuanti ed esagerate di un film porno, e le torride, tormentate, romantiche vicende dei romanzi rosa non corrispondono, per lo più, all’amore e alle relazioni che allacciamo nella vita. Non che a letto non si possa usare l’altalena o che non ci siano storie d’amore da feuilleton: ma le rappresentazioni dei due fenomeni, sesso e amore, in entrambi i casi sono incasellate da una serie di luoghi comuni.
C’è una coreografia prevedibile e tranquillizzante: nel porno c’è un set, poi le persone cominciano e interagire fisicamente. Nel romanzo rosa ci sono delle gestalt, che riassumo prendendo ancora dal romanzo di Stefania Bertola: «Situazione Uno. LEI è tenera, semplice, simpatica, fragile, dolce. […] LUI è ricco, potente, arrogante, affascinante, sexy, inavvicinabile. […] Situazione Due. LEI è la ricca figlia viziata di un miliardario, la principessa a capo di un piccolo stato, la vignaiola che produce il meglio Bordeaux della zona […] LUI è una simpatica canaglia, operaio, macchinista, cameriere, insegnante delle elementari, paggio […] ma questa è solo l’apparenza perché in realtà lui è: figlio di un industriale ricchissimo che si finge operaio per spiare l’azienda rivale, miliardario che a seguito di un grande dolore personale decide di fare il cameriere […] RICORDATE INFATTI CHE MAI, MAI, MAI UNA DONNA MELODY SI METTE CON UN UOMO DI CONDIZIONE SOCIALE INFERIORE ALLA SUA. Situazione Tre. LEI e LUI appartengono più o meno alla stessa categoria sociale e di età. Lei è comunque sempre un po’ più giovane e un po’ meno realizzata professionalmente. Non tanto, quanto basta però a fare di lui e non di lei un premio.[…]». E a questo punto arrivano gli intralci, che sono talmente ripetitivi da poter essere sintetizzati nella sessione workshop intitolato “Che cosa impedisce ai protagonisti di un Melody di amarsi senza problemi fin da pagina due?”.E segue una tassonomia completa degli incidenti, degli ostacoli e degli equivoci che separeranno gli innamorati. Sono situazioni narrative talmente comuni a questo genre da consentire a chiunque di immaginarle, talmente ripetitive da poter essere messe in un database.
E se escludiamo l’inventiva di sottogeneri come il BDSM, questo accade anche nel porno, che ci mostra in sequenze rassicuranti tutto quello che può essere fatto tra due o più persone, col limite dell’anatomia umana che ci ha dotato di un numero limitato di aperture e parti inseribili. È finto, tranquillizzante, emozionante. Prevedibile. E nella prevedibilità, ci rilassiamo.

la scrittura? Sia nel porno sia nel rosa la scrittura è basica, ripetitiva, normalizzata. È il crescendo verso l’orgasmo finale, letterale nel porno, simbolico nel rosa. Non che nel rosa manchi il sesso, anzi, abbondano le descrizioni da metaforiche a esplicite: ma l’orgasmo finale è quello di lei, che ha trionfato su avversità, sciagure, misunderstanding e nemici per conquistare, finalmente, lui. E se nelle scene in cui Lei sente la lingua di Lui tracciarle dolcemente rune celtiche sulle cosce, be’, anche questo è un trionfo femminile.

Infatti il potere, l’equilibrio o lo scardinamento del potere, sono un altro elemento comune alle mie bolle di Venn. Chi domina? Chi viene dominato? Si può vedere nei corpi, nei loro movimenti e nella loro prossemica, sullo schermo, ma anche nelle melodrammatiche vicende del romanzo rosa. C’è sempre uno dei due che in un certo momento “sta sopra”: lei ha scoperto che lui ha quattro figli da un precedente matrimonio, lui l’ha vista fare le pulizie in un condominio. Ma le lettrici sono tranquille: alla fine l’orgasmo finale del «e vissero per sempre felici e contenti nel loro cottage nelle Highlands» arriverà.
Che soddisfazione.

Rocco Siffredi raccomandava, molto sensatamente e con un certo know how: «Non lasciate che i vostri figli imparino il sesso dai porno». Prendere sul serio le convenzioni narrative del porno o del rosa conduce, in entrambi i casi, a un disastroso rimbecillimento.
Entrambi i linguaggi fingono di raccontare qualcosa, ma la rappresentazione che ne esce è falsa come una Barbie. Se è un gioco, e nessuno si fa male, avanti. Nessuna donna pensa realmente di poter incontrare un miliardario texano di nome Karloh che, dopo una serie di colpi di scena, ex mogli vendicative, divulgazione di segreti industriali, ingiusti sospetti e chiarimenti complessi come la descrizione di un computer quantistico la sposi e la porti a vivere in un ranch con scuderia di purosangue e rampicante di rose gialle sul patio. Capita invece, davvero, che il porno lasci delle tracce neurali profonde nella fantasia degli uomini. Raramente bisognerà spiegare a una donna che si è davvero gommisti, e non CEO. di Goodyear travestiti. A quanti uomini bisogna spiegare che pum-pum-pum non è una tecnica, e, se lo è, è noiosa? O quali sono i tempi dell’orgasmo femminile? O dov’è esattamente il clitoride, e come reagisce?

E questa sì che è una scocciatura.

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Il tempo considerato come un vortice di cicale (Rorschach 12/03/2021 su Quasi, la rivista che non legge nessuno)

Qui per esteso

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Parlare di Shaun Tan è complicato. È un artista mostruoso, i disegni, i colori, le storie, non sai in cosa sia più bravo. Forse non ha senso considerare questi aspetti separatamente: Shaun Tan fa dei libri e, ogni volta, sono bellissimi e sorprendenti, diversi uno dall’altro, al punto da rendere difficile credere che siano opera della stessa persona. Quando in libreria scopro che è stato pubblicato un libro nuovo di Tan mi sembra che sia arrivato Natale, o una festa con i fuochi d’artificio: mi emoziono, lo tengo in mano per un attimo prima di sfogliarlo, traboccante di gioia, e mi domando «E questo, come sarà?» «Cosa mi racconterà stavolta?» Poi lo sfoglio tutto, in piedi. Poi lo compro. E a casa lo sfoglio di nuovo, e mi incanto sui dettagli, mi lascio risucchiare dalla storia, e poi c’è quel minuto di soddisfazione, io leggo sempre sdraiata: finito il libro, lo tengo sul petto e lo abbraccio. E penso «Di nuovo, ce l’hai fatta di nuovo, maledetto!». La storia si è già conquistata un posto nel mio immaginario, incastrandosi alla perfezione, clac. Per sempre.
CicadaCicala, è del 2018, e Tunuè l’ha tradotto e pubblicato in Italia immediatamente. Io l’ho scovato in una libreria per ragazzi che frequento spesso, e siccome non è un albo illustrato per bambini, pur avendone le dimensioni, posso solo immaginare che le ragazze della libreria lo tengano semplicemente perché piace anche a loro. E perché sanno che altri adulti come me si intrufolano tra i loro scaffali alla ricerca di tesori, raramente andandosene a mani vuote.

Cicala racconta una storia dura e spietata di solitudine, sfruttamento, violenza. Cicala, col suo vestito da impiegato degli anni Cinquanta del secolo scorso, non fa che lavorare, lavorare, maltrattato da tutti. Dorme in uno sgabuzzino. Le gambe, l’unica parte che vediamo degli umani che lavorano con lui e lo bullizzano, sono coperte da pantaloni in puro stile Mad Men, le scarpe con cui lo prendono a calci sono lucide, le calze di nylon e le scarpette delle colleghe che assistono evocano uffici in cui la gerarchia dei piani e degli incarichi, le finestre, le scrivanie, creano un codice comprensibile: ci sono i normali e gli underdog. Cicala è un underdog. I colori sono spettacolari: centinaia di verdi impastati per ottenere quel carapace duro ma vulnerabile, i bianchi e i neri non sono mai bianchi e neri, puoi rintracciare azzurri, gialli, rosa. Il risvolto di copertina e la prima facciata sono un’unica distesa grigia e cubista, ma a guardar bene una figurina alata si muove, piccola piccolissima, E dopo il frontespizio c’è un’altra immagine a due pagine, la giacca di Cicala, con le sue quattro maniche e le zampette nere, e un cartellino con un barcode e la sua foto. Le pieghe, la cupa dolcezza dei grigi e dei neri, il bianco che ricorda la tristezza della neve sporca. Tutto emana infelicità e prigionia.
E Cicala fa uno di quei lavori d’ufficio insensati, kafkiani, in un cubicolo. Per diciassette anni. Orribili giorni tutti uguali.

«Diciassette anni. Promozioni: niente.
Risorse Umane dice Cicala non umana.
Risorse: niente. Tok! Tok! Tok!»

E tu vuoi dirgli, al disegno: scappa! Salvati! Assomigli troppo alle nostre vite!
Il tempo in Cicala non scorre. Le tavole rappresentano una routine immodificabile, umiliante. Spezza il cuore. E ti fa pensare, piano piano, al tempo che anche tu trascorri, trasportato e impotente, tra le cose del mondo, gli impegni, la cattiveria. Impegnandoti, scambiando questa cosa per vita.

C’è una particella che si chiama Muone, e vive 0,0000022 secondi. Si crea quando i raggi cosmici si scontrano con l’atmosfera, e vengono rimbalzati nello spazio alla velocità della luce. Ma com’è allora che sulla terra ci sono i Muoni? In 0,0000022 secondi dovrebbero percorrere al massimo 700 metri, e l’impatto che li crea avviene a 30 chilometri dalla superficie terrestre. Ho letto questa cosa in uno dei miei libri sul Tempo, un argomento che mi affascina profondamente. In Cicala il tempo ha una consistenza particolare, sembra eterno perché non c’è scampo dalla bruttezza, dal disprezzo, dall’inutilità complessiva di tutto il lavoro.

«Mai finiscono lavoro umani.
Rimane sempre Cicala. Finisce lavoro.
Nessuno ringrazia Cicala.
Tok! Tok! Tok!»

Un lavoro che non si sa cosa sia, in un labirinto di cubicoli, con pile di fogli, timbri, scrivanie. È l’inferno. È l’assenza di significato. È una prigione.
Torniamo ai Muoni: li troviamo sulla Terra, dove in teoria non potrebbero arrivare. Ma più veloci ci si muove nello spazio più il tempo, che non è unico, rallenta. La durata della vita dei Muoni è 0,0000022 secondi in stato di quiete, ma quando sono lanciati verso la Terra la durata della loro vita aumenta di un cinquantesimo. E lo stesso avviene per lo spazio percorso, fino ad arrivare a circa 35 chilometri, e a farli rimbalzare sulla superficie del pianeta.
Un po’ come i Niomi di Terry Pratchett, che vivono per un tempo brevissimo che loro percepiscono come molto più lungo, perché il nostro tempo scorre più lento del loro.

Nelle prime dieci tavole di Cicala non c’è tempo. C’è solo lavoro, e dolore. Raccontato con distacco alieno: Tok! Tok! Tok! Non il distacco dell’assenza di sentimenti, ma quello della diversità.

»Diciassette anni. Cicala va in pensione.
Festa: no. Stretta di mano: no.
Libera scrivania Capo dice.
Tok! Tok! Tok!»

E quei diciassette anni sono durati poche pagine, ma sembrano mille. Con la compressione dei monumenti nelle palle di vetro con la neve, Tan ci ha fatto assistere frustrati e addolorati all’intera vita di Cicala. Siccome non va da nessuna parte, il tempo passa velocissimo. La storia è già finita, pensi. E siccome Cicala non ha più niente, lavoro, soldi, nemmeno lo sgabuzzino per riposare, lo guardi salire le scale cupe e escheriane che portano al tetto dell’edificio, e pensi «Ecco. Che altra via d’uscita c’è?»
In una sinfonia oceano di grigi trascorrono, mute, le ultime pagine, tutte doppie, grandissime. L’unico colore è la testolina verde di Cicala. Intorno, nebbia. Il Nulla. The Void.
Sono tanti, diciassette anni. Potrebbero essere pieni di cose, persone, sorprese, avvenimenti. Invece siamo già alla fine del libro?
No.

No, grazie Shaun Tan.

Sulla schiena di Cicala si apre una fessura, sottile, di un rosso che riverbera impercettibilmente sull’universo vuoto che lo circonda, sull’orlo di quel tetto. Spacca la pelle verde, spacca il completo doppiopetto grigio, e tu giri pagina col cuore in gola e sì! Sì! Sì!
Dalla forma ingobbita dell’insetto impiegato in una Corporation spietata si libera un altro Cicala! Lasciandosi dietro un involucro inutile e immobile una cicala scarlatta con ali trasparenti si libra fino quasi a superare il bordo della pagina. E l’immagine successiva è un cielo grigio e muto, pieno di insetti rossi e luccicanti che volano, come costellazioni di fiammelle.

Quanto vive una cicala? Fino alla fine dell’estate. Ma sottoterra, in forma di larva, vive 17 anni, un bel numero primo che le facilita la sopravvivenza, sfasandola rispetto alla vita dei predatori.
Diciassette anni in quell’ufficio-universo ctonio e poi solo un pugno di mesi, d’estate?

«Cicale tutte a foresta tornano.
A volte pensano a Umani.
A smettere di ridere non riescono.»

Quei mesi estivi, come per i Muoni e i Niomi, valgono più di 17 anni sottoterra, o in un palazzo di cemento insieme a umani più bestiali degli animali. La felicità che trabocca dalle tavole di Shaun Tan, che terminano proprio con l’ultimo risvolto di copertina, dipinto nei colori verdi e arancio di un luogo misterioso e incantato, ti porta a riconsiderare tutto il libro.
A riconsiderare il tempo, e il dolore che porta con sé. La vita, l’universo e tutto quanto sono molto di più di quei diciassette anni. Sono molto di più della nostra prigione interiore. Si estendono in una dimensione ulteriore, quella del significato e della felicità.
E quanto dura la felicità? Non in secondi, in assoluto?

«Silenzio:
graffia la pietra
la voce delle cicale>>

Tan chiude questo libro magico, con grazia, citando Matsuo Basho.
Nel mio cuore, piccola, una cicala si libera dal suo guscio.

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